Oggi inauguro una nuova Rubrica che ho deciso di chiamare “10 cose che odio”, uno spazio dedicato a tutto ciò che mi irrita, mi triggera, o semplicemente non riesco a sopportare.
Il titolo è un omaggio al celebre film con Julia Stiles e il compianto Heath Ledger, ma qui il concetto è più ampio. Il mio elenco conterrà un numero variabile di “cose che odio”, perché, diciamocelo, il mondo offre spunti di irritazione a ciclo continuo. Sarà una rubrica ricorrente, ma non fissa: non posso prevedere quando scatterà l’allarme, ma quando succederà, sarà impossibile ignorarlo.
Una precisazione importante: stroncare non è mai un atto banale. Anzi, come avevo detto per me è una faccenda seria, ricordate?
In questa Rubrica ho deciso di farlo con un taglio ironico, pungente e, talvolta, sarcastico. Perché l’ironia non è solo uno scudo, ma una lente attraverso cui osservare il mondo con leggerezza senza perdere di vista la profondità.
Gli ambiti? Praticamente tutto: dalle news ai trend social, dalle esperienze di vita quotidiana alle relazioni, fino a quei piccoli e grandi drammi che sembrano fatti apposta per irritare. Quelle cose che vi fanno dire: «Ma sono io l’unico a trovarlo insopportabile?» Beh, no. Non siete soli.
Pronti a iniziare? Bene, perché qui non si fanno sconti, né al mondo né a me stessa. E se, leggendo, scoprirete di odiare qualcosa quanto me… forse abbiamo colpito nel segno.
Filippo Turretta: quando la “serenità” fa rabbrividire
Cominciamo da una scena che lascia senza parole. Filippo Turretta, 23 anni, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giulia Cecchettin – la sua ex fidanzata – dice alla fine del processo «Sono sereno». Non devastato, non travolto dal rimorso. Sereno.
Ed ecco il paradosso: non sembra portarsi addosso il peso del crimine atroce che ha commesso, ma solo quello della pressione mediatica che ha accompagnato il caso. Perché sì, è stato riportato che fosse sollevato per la fine del processo. Sollevato! Come se il vero dramma per lui fosse stato essere sotto i riflettori, non aver tolto la vita a Giulia.
E qui sta il nodo che mi sconvolge. Turretta, in quell’aula di tribunale, non sembrava provare alcun dolore per ciò che ha fatto. È come se il crimine non gli appartenesse, come se l’ergastolo fosse un dettaglio logistico e non il risultato di un atto devastante. Non un grammo di rimorso, solo un sospiro di sollievo perché tutto è finito.
La domanda è inevitabile: cosa ci dice questa “serenità” del nostro tempo? Viviamo in una società dove sembra che il peso delle conseguenze sia sempre più evanescente, dove il rimorso è quasi una specie in via di estinzione. Non sentire nulla, non provare nulla: questa è la nuova normalità?
E non è solo una riflessione su Turretta, ma sul contesto sociale più ampio. Stiamo allevando individui capaci di compiere gesti terribili senza confrontarsi con il dolore che causano? Stiamo trasformando la responsabilità in una formalità legale, senza che sia più una questione morale?
La serenità, in casi come questo, non dovrebbe nemmeno entrare nel vocabolario. Eppure eccola lì, detta come se fosse una cosa normale. E noi, qui fuori, proviamo rabbia.
La rabbia è ciò che proviamo quando qualcosa ci sembra profondamente sbagliato e ingiusto. È il modo in cui diciamo: «Io non accetto quello che hai fatto». Turretta, invece, sembra non sentire nulla. Non sente il peso di ciò che ha fatto, né quel rimorso che dovrebbe travolgerlo. E questo lascia tutto il carico emotivo sulle nostre spalle. Lui sereno, noi sbigottiti. Perché no, non c’è nulla di sereno in questa storia.
Gli ignavi 2.0: il trionfo del benaltrismo e dell’indifferenza
Se la serenità di Turretta mi lascia senza parole, c’è un altro atteggiamento che riesce a farmi ribollire: l’indifferenza. Parlo di quelle persone che, di fronte a qualsiasi cosa – piccola o grande, importante o banale – se ne escono con un bel «me ne frego». Quelli che non prendono mai posizione, che non si schierano mai.
Dante, nell’Inferno, li mette nell’Antinferno, perché nemmeno l’Inferno vero e proprio li vuole. E sapete che vi dico? Aveva ragione. Gli ignavi: un passo sopra l’invisibilità, ma un gradino sotto la dignità.
E mentre Dante li condannava a correre nudi, inseguendo un’insegna che roteava su se stessa alla velocità della luce, punti da vespe che li tormentavano, oggi noi li riconosciamo dai meme. Avete presente? Quelle immagini orribili con frasi fatte sulla vastità dell’indifferenza, come fosse una virtù zen.
E se pensate che sia roba da boomer, vuol dire che non frequentate abbastanza i social. Basta aprire un thread qualunque su un argomento qualunque, e troverete decine di commenti di persone che ci tengono moltissimo a far sapere… che a loro non importa nulla. È un paradosso perfetto. In pratica queste persone stanno dicendo che a loro non interessa, ma lo fanno gridandolo al mondo con un megafono.
Sapete qual è il punto? Io non riesco a fregarmene. Nemmeno un po’. Forse perché credo che scegliere di non scegliere sia già una scelta – la peggiore, però.
L’indifferenza non si ferma ai meme o ai commenti banali sui social. No, gli ignavi di oggi hanno affinato la loro arte. Quando si parla di violenza sulle donne, arriva puntuale il «E allora gli uomini?», come se fosse una competizione su chi è più vittima. Quando si parla di diritti LGBTQ, salta fuori il classico «I problemi in Italia sono ben altri», riducendo tutto a una “questione marginale”. E appena accenni al divario salariale o al carico mentale delle donne, ecco il partner di turno con il suo «Ma mica siamo tutti così, io aiuto a casa!» Certo, lo sappiamo che non tutti gli uomini sono così. Ma qui il punto non è criminalizzare un’intera categoria, è affrontare un problema. E invece, ogni volta che qualcuno si sente attaccato, il dibattito si riduce a un mare di sterili polemiche.
È questa la vera arte degli ignavi moderni: deviare, sminuire, non esporsi. Per loro non è mai il momento giusto, mai il contesto adatto per parlare di argomenti importanti. E così, nulla cambia.
Il benaltrismo – quell’atteggiamento del “ci sono problemi più importanti” – è solo un’armatura di cinismo. Ti fa sembrare distante, superiore, troppo intelligente per queste “polemiche inutili”. Ma la verità è che è solo un modo elegante per dire “non mi interessa”.
Perciò no, non riesco a fregarmene. Nemmeno un po’. Non perché mi piaccia soffrire o angosciarmi, ma perché credo che ignorare le cose che non vanno non sia una scelta “neutrale”. È una scelta egoista. E la neutralità, cari ignavi, non vi renderà migliori. Vi lascerà soltanto più soli, a rincorrere senza sosta il vuoto delle vostre scelte mancate.
La professionalità perduta: tra mail ignorate e disorganizzazione cronica
Parliamo di un tema spinoso: la professionalità. O meglio, la sua assenza. Perché se c’è una cosa che oggi sembra scarseggiare è proprio il rispetto per il lavoro altrui. Ed è qui che entra in scena la mia esperienza con una consulente.
Tutto iniziò con una chiacchierata conoscitiva. Sorrisi, cordialità e un bel pacchetto di ore sottoscritto (e da me pagato in anticipo) con fiducia. Ma già dal primo incontro, qualcosa non mi aveva convinto. I suoi “consigli professionali” suonavano un po’… familiari. Sapete, il genere di suggerimenti che potete trovare su YouTube, nei tutorial gratuiti, con titoli tipo «5 trucchi per diventare virale». Ah, beh, grazie mille. Per quello bastava una ricerca veloce, non centinaia di euro.
Ma il meglio – o il peggio – doveva ancora arrivare. Durante una delle prime videochiamate le dico chiaramente: «Non voglio andare su TikTok e dedicare tutto il mio tempo ai reel. Non è qualcosa che mi rappresenta». La volta successiva, lei arriva con una soluzione geniale. Indovinate un po’? «Dovresti proprio buttarti su TikTok e, almeno all’inizio, creare 3 reel al giorno!» Meraviglioso. Un ascolto attento, degno di una segreteria telefonica guasta.
Arriviamo così al capolavoro. Dopo un paio di incontri, quando già mi stavo pentendo della mia scelta, la tipa sparisce. Dieci giorni di silenzio totale. Niente mail, niente aggiornamenti. Zero. Scrivo io, per sapere se va tutto bene e per fissare un altro appuntamento. Sapete cosa mi ha detto? Mi ha detto che il calendario delle sue disponibilità… non era compreso nel prezzo! Mi chiedo cosa lo fosse, allora. La sua presenza aleatoria e i consigli inutili?
Ovviamente ho chiuso la collaborazione perché dal mio punto di vista il rapporto di fiducia era ormai venuto meno.
Sapete cosa mi lascia più sconvolta? Che questo non è un caso isolato. È l’apoteosi di un atteggiamento che ormai dilaga ovunque.
Le persone non rispondono più alle mail a meno che non abbiano un interesse personale nel farlo. Un semplice “No grazie, non sono interessato” sembra un gesto di rara educazione. La puntualità è un miraggio. Arrivare in orario oggi sembra un talento da sfoggiare sul CV accanto a “uso avanzato di Excel”. Non parlo di ritardi epocali per cause straordinarie, ma di quel quarto d’ora accademico che è diventato d’obbligo, accompagnato da scuse tipo «Il traffico, sai com’è» oppure «Scusa, ma il tempo vola!»
Ma il tempo vola solo per loro, evidentemente. Perché il tuo, mentre li aspetti, è un bene sacrificabile sull’altare della loro disorganizzazione. E quando, con garbo, fai notare il ritardo si offendono. Ti guardano come se fossi tu il problema, colpevole di non avere un po’ di flessibilità.
Tutto questo non è solo maleducazione e mancanza di professionalità. È un riflesso di un mondo (del lavoro e dei rapporti interpersonali) sempre più pressapochista, dove ci si sente in diritto di pretendere senza dare nulla in cambio.
Brain Rot: quando i social ci trasformano in zombie digitali
E a proposito di cose che riflettono il nostro tempo, è notizia di pochi giorni fa che l’Oxford Dictionary ha dichiarato brain rot (che potremmo tradurre con “cervello in decomposizione”) parola dell’anno 2024. Lo so, suona un po’ inquietante.
Per chi non lo sapesse, il termine descrive quella sensazione di totale alienazione che proviamo quando ci perdiamo in un loop infinito di contenuti social banali: video brevi, meme, reel, TikTok. Insomma, è il risultato dello scroll compulsivo. Quel momento in cui, senza accorgertene, passi un’ora intera a guardare gente che cucina pancake, balla trend imbarazzanti o ti dice che stai usando la tua caffettiera “nel modo sbagliato” o che la riga di lato ti fa la faccia storta.
Devo ammettere che è capitato anche a me, benché raramente. Mi è successo di restare incollata allo schermo, davanti a una serie di reel, e quando alla fine ho alzato gli occhi mi sono sentita… vuota, quasi uno zombie. Non è difficile capire perché lo chiamano brain rot. È come se il cervello fosse andato in standby, intorpidito dall’inattività.
Ed è proprio qui che mi ricollego al discorso di prima. In quanto creator digitale, non mi sono mai sentita davvero a mio agio nell’esprimermi tramite reel o video brevi. Sarà che non mi viene naturale, o che trovo frustrante l’idea di dover condensare pensieri complessi in 15 secondi. Ma quello che davvero mi infastidisce dei reel è il dover stupire a tutti i costi: catturare l’attenzione, interrompere lo scroll compulsivo di una persona, superare l’infinita concorrenza. Tutto questo toglie spontaneità ai contenuti.
Un tempo si diceva “Content is King”, il contenuto è re, ma oggi? Il contenuto sembra un accessorio. Puoi avere idee interessantissime, ma senza il gancio perfetto, la musica giusta, lo sfondo accattivante, la durata ottimale e gli effetti cool in cui fai un saltello e hai cambiato outfit in un decimo di secondo netto, il tuo reel sarà destinato al fallimento. E questo, onestamente, lo trovo molto triste. Costringe noi creator a inseguire le mode, a replicare trend sempre uguali, finché non sembriamo tutti usciti dallo stesso stampino. Perché alla fine, diciamolo: più che creativi, ci vogliono clonati.
Non è che non capisca il fascino di certi meccanismi – qualche volta ci sono cascata anch’io – ma la verità è che non fanno per me. Preferisco stare a un passo di distanza, guardare le cose senza farmene risucchiare. Non è questione di seguire o meno le mode: è scegliere come raccontarmi e, soprattutto, come preservare la mia voce, la mia unicità, insomma, quello che conta davvero per me.
Elodie a Sanremo: ribellione o conformismo mascherato?
E parlando di contenuti e di come ci raccontiamo, è impossibile non pensare a Elodie.
Quest’anno tornerà sul palco del Festival di Sanremo, e questa notizia ha riportato alla ribalta alcune dichiarazioni che aveva fatto proprio durante la sua partecipazione nel 2023. In quell’occasione, Elodie aveva detto di voler essere «puttana dall’inizio alla fine», aggiungendo: «Do una accezione positiva alla parola. Voglio esprimere una femminilità arrogante ed essere padrona della mia fisicità».
Non è la prima volta che Elodie usa il corpo come centro del suo messaggio, e di lei ho già scritto in passato (trovate l’articolo qui), quando avevo messo a confronto il nudo di Nicola Coughlan in Bridgerton 3 e alcune dichiarazioni della cantante. Elodie l’ho un po’ seguita ai tempi di Amici. Era il 2015 e, tra tanti concorrenti, lei spiccava davvero. Una voce straordinaria, una bellezza inusuale e intensa. Insomma, aveva tutte le carte in regola per un successo duraturo.
Non sono però una fan del percorso che ha intrapreso in questi ultimi anni, in particolare della sua continua smania di spogliarsi a tutti i costi. Certo, Elodie definisce tutto questo un atto libero, femminista, un modo per rivendicare il controllo sul proprio corpo. Ma libero davvero? Femminista davvero? Mi spiace, ma a me non sembra affatto così.
Da un lato, spogliarsi a ogni occasione non è libertà, ma adeguarsi perfettamente a un sistema che da sempre identifica le donne con la loro apparenza. Un sistema che esulta quando sei bella, desiderabile, possibilmente svestita. Insomma, il patriarcato non sta tremando per questa scelta: sta applaudendo entusiasta.
Dall’altro, ogni volta che ti spogli invece di cantare c’è un prezzo da pagare, ed è altissimo. La creatività, quella vera, quella che dovrebbe essere il cuore del messaggio artistico, viene messa da parte. Diventa ancella dell’esibizionismo, schiava del “guarda me, guarda il mio corpo”. E così l’arte non si esprime più con una canzone, un’emozione, un’idea. Si esprime con un’immagine da like facile.
Il risultato? Una narrazione che ci viene venduta come emancipazione, ma che sa di vecchio. Perché spogliarsi per provocare i benpensanti non è ribellione, è la versione glamour del solito cliché: tanto rumore per nulla.
Nota: nel podcast ho fatto una svista temporale, e ho attribuito la dichiarazione di Elodie a quest’anno. In realtà, risale al Festival di Sanremo 2023. Mea culpa, ma il discorso resta valido!
Il panettone d’oro della vergogna: quando la virtù nasconde il crimine
E arriviamo così a quello che potrebbe tranquillamente essere il capitolo finale di una serie tv crime: suor Anna Donelli, già premiata l’anno scorso con il panettone d’oro per il suo instancabile volontariato, è ora coinvolta in un’indagine per collusione con la ’ndrangheta. Ripeto: collusione con la ’ndrangheta.
Perché sì, siamo passati dal pandoro gate di Chiara Ferragni al panettone d’oro incriminato. Se l’anno scorso ci indignavamo per il marketing natalizio truffaldino, quest’anno ci tocca affrontare il lato oscuro del lievitato: un premio che passa dalle mani della beneficenza a quelle insanguinate dell’associazione a delinquere.
E diciamocelo: c’è qualcosa di tragicomico in tutto questo. Una suora che, sotto il velo della virtù, nasconde presunte connivenze con uno dei sistemi criminali più spietati al mondo. È la quintessenza dell’ipocrisia, l’apoteosi del paradosso. Da una parte, il sorriso santo e le opere di carità; dall’altra, affari loschi e silenzi omertosi.
E la domanda è inevitabile: quante altre maschere ci sono là fuori? Quanti altri panettoni dobbiamo sfornare prima di capire che sotto la glassa c’è un impasto che puzza di marcio?
Certo, sarebbe comico, se non fosse così orribile. Perché in tutto questo c’è qualcosa di profondamente disturbante: ossia l’uso della fede, della tonaca, della carità cristiana, della facciata immacolata per coprire operazioni di potere, soldi e violenza.
Aspetteremo il processo per avere un quadro più chiaro. Ma per ora la suora è in prigione, e le parole del boss sembrano dipingere una situazione poco confortante: una rete di medici, politici e religiosi, tutti uniti sotto il segno della ‘ndrangheta. È come una versione distorta del presepe: ognuno al suo posto, con ruoli ben definiti.
Sapete qual è la cosa peggiore? Che nemmeno il Natale è più quello di una volta. Prima ci toccavano i sermoni contro il consumismo; ora abbiamo direttamente le connessioni mafiose nel volontariato. Se continua così, il prossimo panettone d’oro lo assegneremo direttamente in carcere. Almeno lì, tra un giro e l’altro, hanno già capito come funziona il sistema.
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