The Perfect Couple continua a mantenersi saldamente in testa alle classifiche di Netflix. Attualmente al secondo posto tra le serie più viste della piattaforma, il mistery piace al pubblico, pur proponendo una formula che osa poco.
Nicole Kidman, presente come produttrice e attrice, non è nuova a questo tipo di ruoli. Pensiamo a Big Little Lies, The Undoing e Nine Perfect Strangers. E’ evidente che la Kidman non solo ami ma si senta a suo agio nelle parti dove interpreta donne alto-borghesi coinvolte in intrighi familiari con contorno di misteri irrisolti.
Se questa nuova produzione ha tutte le carte in regola per ripetere il successo delle precedenti (un cast stellare, un alto budget e il pregio di non prendersi troppo sul serio), non riesce tuttavia a eguagliare le precedenti. Scopriamo perché.
The Perfect Couple: trama e recensione
Nell’esclusiva isola di Nantucket, la ricca e influente famiglia Winbury si prepara a festeggiare una serie di eventi mondani, culminanti nel matrimonio di Benji – uno dei figli di Greer e Tag Winbury – con la giovane zoologa Amelia.
Greer (Nicole Kidman) e suo marito Tag (Liev Schreiber) sembrano di fatto la coppia perfetta. Hanno tre figli, ricchezze e fama. Tuttavia i loro segreti cominciano a venire a galla quando il corpo senza vita della damigella d’onore, Merritt, viene ritrovato durante i festeggiamenti che precedono il giorno del matrimonio.
L’indagine dei detective di Nantucket svela una rete di tradimenti e bugie che compromette l’immagine apparentemente impeccabile della famiglia Winbury.
La serie offre un intrattenimento piacevole, supportato da un cast stellare. Si nota subito che la produzione non ha badato a spese per garantire l’alta qualità dello show. La fotografia è curata e si avvantaggia di una location splendida come l’isola di Nantucket, che regala atmosfere eleganti e suggestive. Le sei puntate scorrono rapidamente, mantenendo un ritmo fluido e coinvolgente.
Ma tutto questo basta a farne una serie di qualità? La risposta è no.
Perché The Perfect Couple è una miniserie deludente
Parto da una considerazione personale. Quando mancavano circa 15 minuti alla fine dello show, sono andata a controllare se davvero quello fosse l’episodio conclusivo. L’ultima puntata, con la risoluzione del mistero, appare infatti affrettata, scollegata nelle scene e priva di una vera coerenza narrativa. Guardandola, la sensazione è quella di un lavoro raffazzonato, come se si fosse cercato di chiudere gli archi narrativi senza preoccuparsi di dare loro il giusto respiro.
Mi sono sentita insoddisfatta, un po’ come quando si mangia cibo-spazzatura: all’apparenza può essere gustoso, ma alla fine non lascia davvero appagati.
Uno dei problemi di The Perfect Couple è che cede a un’eccessiva stereotipizzazione dei personaggi. Da un lato, abbiamo i ricchi snob, manipolatori e corrotti, dall’altro c’è la classe media ingenua e sprovveduta, ma mossa da buone intenzioni.
Ma tutti sono poco più che macchiette, a partire dalla Greer (interpretata da una gessosa Kidman), la quale è una maniaca del controllo che comanda la famiglia con il pugno di ferro. Abbiamo il primogenito viziato e buono a nulla che tradisce la moglie incinta con l’amica di famiglia francese, interpretata da un’irriconoscibile Isabelle Adjani. E non manca l’adolescente problematico ma in fondo sensibile. E che dire del marito fattone e narcisista… che passa il tempo a giocare a golf cercando di colpire le anatre, tradendo la moglie e spendendo i suoi soldi?
Come se non bastasse, anche l’epilogo – con la caduta dei “cattivi” dal piedistallo e tutto che si sistema come in una favola – lascia un retrogusto amaro. Il finale, così ottimistico e consolatorio, conferisce alla serie una qualità cheap. Quel senso di artificiosità sminuisce l’intera narrazione, rendendo lo show un intrattenimento di bassa qualità, più superficiale di quanto inizialmente promettesse.
La risoluzione del mistero in The Perfect Couple: riflessioni finali
Non tutto è da buttare in The Perfect Couple. La miniserie Netflix si guarda con piacere e, con i suoi soli 6 episodi, si configura come un divertissement leggero e rapido da consumare. Le interpretazioni sono per lo più valide, con alcuni attori che brillano più di altri, in particolare un Liev Schreiber capace di esprimere molte sfumature.
La sigla, poi, ballata da tutto il cast sulle note di Criminals di Meghan Trainor, è davvero bella e mi ha ricordato quella del drama coreano Pachinko (Prima stagione). Va detto che quest’ultima rimane insuperata per originalità e impatto visivo.
La struttura della trama segue il classico genere whodunit, tanto caro ai fan di Agatha Christie (che non a caso viene più volte citata nel corso degli episodi), genere in cui lo spettatore è spinto a seguire tutti gli indizi per scoprire l’assassino. Tale tipo di narrazione ha sempre una certa attrattiva, e in questo la miniserie fa il suo lavoro e coinvolge.
Tuttavia ci sono limiti evidenti, oltre a quelli già menzionati sopra. Fred Vargas, splendida autrice francese di gialli, ha detto che un delitto è sempre semplice. Ed è vero. Non importa quanto una narrazione possa complicare gli eventi per rendere il mistero più interessante da scoprire. Alla fine la soluzione dovrebbe essere chiara e pulita.
In questo caso, invece, la risoluzione del mistero appare macchinosa, troppo complicata e piena di incongruenze e ‘buchi’. La spiegazione del movente è talmente intricata e traballante da sembrare artificiosa, lasciando lo spettatore insoddisfatto. Di conseguenza, la serie fallisce proprio in quanto ‘giallo’, perché non riesce a mantenere quella semplicità strutturale che è la forza dei migliori whodunit.
Oltre a questo, la scelta di sbrigare il momento della risoluzione del mistery in modo frettoloso – giusto pochi minuti, e il colpevole è preso e ammanettato, la faccenda liquidata e la serie finita – amplifica la sensazione di incompiutezza. Una conclusione che in fin dei conti lascia molto poco.
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