Comincio con lo scusarmi, perché sarà un post chilometrico. Il mio obiettivo è quello di parlare della sindrome da second lead, cos’è e come si manifesta. Ma anche recensire tre drama bellissimi che mi hanno visto soffrire una forma molto acuta di SLS (second lead syndrome), spiegando perché a mio avviso quei personaggi secondari hanno (rischiato di) offuscare i protagonisti.
Se siete interessati, mettetevi comodi e godetevi la lettura!
Sindrome da second lead: cos’è e perché è reale
La sindrome da second lead è quel fenomeno per cui noi spettatori tendiamo a infatuarci del personaggio gerarchicamente meno importante della storia, preferendolo al protagonista. Di solito a questo sentimento si accompagna il violento desiderio di una ship tra lui e la protagonista. Che però mai avverrà.
La SLS è dolorosa e – lo sappiamo per esperienza – votata al fallimento. Sì, ci è giunta voce di un bacio rubato da un second lead una volta in un kdrama (se siete interessati l’impresa è riuscita al magnifico Jang Hyuk in Wok of Love). Ma è un caso più unico che raro.
Quello che bisogna capire è come mai questa sindrome colpisca tanti di noi, più e più volte. Le ragioni sono numerose.
Perché il loro arco narrativo è spesso scritto meglio
Non è raro che la storyline relativa ai second lead sia più accurata e interessante di quella dei protagonisti. Quante volte, infatti, abbiamo come main lead il solito chaebol di tot generazione, arrogante, insensibile, che poi si rivela un cuore di burro – legato da qualche drammatico trauma infantile alla nostra eroina? Siamo onesti, moltissimi drama hanno un impianto narrativo di questo tipo.
La creatività degli sceneggiatori si esprime meglio nei personaggi secondari, più ricchi di sfumature e profondità.
Perché incarnano l’uomo ‘ideale’
Per quanto sia sciocco parlare di ‘uomo ideale’, è innegabile che il second lead sia la quintessenza di ciò che – generalizzando – ognuno di noi cerca in una relazione. E’ dolce e sensibile, presente e accudente. Si interessa alla protagonista, la mette al centro del suo mondo, talvolta anche troppo – fino a risultare uno zerbino. Un adorabile zerbino.
La differenza con il protagonista (superbo, freddo e scostante, sempre impegnato in qualche personalissimo travaglio) emerge ancora più netta. E ci sono momenti in cui vorremmo prendere a testate la tipa di turno, che corre dietro l’uomo sbagliato quando ha chiaramente quello giusto davanti agli occhi.
Perché è nella natura umana tifare per gli amori impossibili
Infine, una considerazione di natura psicologica. Sappiamo fin dalla prima puntata che la protagonista non finirà mai con il second lead, epperò ci sono casi in cui non smettiamo di sperare. Io ad esempio (lo vedremo tra poco) ci ho creduto disperatamente guardando Start-up: una SLS così credo non l’avrò mai più.
E’ una sorta di speranza cieca, di immedesimazione, un desiderio di essere oggetto di un amore simile, il bisogno del lieto fine a tutti i costi, la voglia di riscatto per un ‘eterno secondo’, senso di giustizia. Chiamatelo come vi pare. Sta di fatto che siamo fatalmente attratti dall’amore impossibile, quello che già sappiamo non si realizzerà mai.
Start-up, 2020
Start-up è stato il settimo drama che ho visto nella mia vita. Ero una novellina, del tutto impreparata allo stravolgimento che mi aspettava: Kim Seon-ho, la star coreana a cui da allora ho votato il mio cuore.
La trama di Start-up credo sia superflua da sintetizzare: la serie ha avuto un successo strepitoso di pubblico e critica, e non devo essere io a rimarcare l’oggettiva solidità di questo prodotto. E’ accattivante, realizzato bene e recitato ottimamente da un cast stellare. La sua forza sta nell’atmosfera giovane e vibrante che emana, intessuta di sogni, speranze, futuro e dinamico ottimismo. Certo, ci sono i drammi familiari, le lacrime, l’angoscia.
Ed è qui che entra in scena il second lead, Ji-pyeong (Kim Seon-ho), colui che fino all’ultimo minuto dell’ultima puntata ho sperato potesse ottenere l’amore della sua bella. Non me ne voglia Nam Joo-hyuk, che è buono, bello e caro. Ma tra i due non c’è partita, nemmeno per un istante.
Non importa che Ji-pyeong sia un uomo ricco e di successo. Importa che iniziamo a tifare per lui dal primo secondo – non appena vediamo la sua generosità d’animo, capiamo come ha superato le difficoltà, osserviamo la delicatezza con cui interagisce con la nonna di Dal-mi, e ammiriamo la dignità con cui si fa carico del suo cuore spezzato.
E’ lui il vero principe azzurro di questo drama. Lui – che ha indossato il suo mantello in segreto per anni, rendendo un’insicura solitaria bambina una forte e matura principessa.
Voto: 9+/10
Dove vederlo: Netflix
Still seventeen (Thirty but Seventeen), 2018
Sono rimasta incantata da questo drama fin dalle primissime scene, coinvolta dal clima intimo e nostalgico che si respira. Gli attori più giovani e quelli che interpretano la versione adulta – per una volta – sembrano davvero le stesse persone, il che rende tutto molto realistico e credibile.
Il drama ruota attorno a un incidente che coinvolge Seo-ri, una studentessa diciassettenne, che entra in coma e si risveglia quando ormai ha 30 anni. Nonostante l’aspetto sia quello di una donna, la sua testa è rimasta quella di una ragazzina, ed è adorabile vederla così pura e ingenua, infantile e scombinata.
Ora, la serie in realtà è il viaggio che Seo-ri compie alla riscoperta di se stessa. La storia d’amore c’è, ha una sua evoluzione lenta e graduale, ma non direi che ne è il fulcro.
Il main lead, Woo-jin, a me è piaciuto. E’ il tipico uomo anaffettivo e introverso che nasconde traumi e ferite profonde, che scopriremo (e di conseguenza apprezzeremo) poco per volta. Di certo, però, non è un personaggio che chiama immediata simpatia.
Ben diverso il discorso sul second lead, Chan (interpretato da Ahn Hyo-seop). Mi tolgo subito questo peso dalla coscienza. Io non perdonerò mai Ahn Hyo-seop di essere diventato un anonimo belloccio come tanti, ingessato e inespressivo, quando in questo drama era un teenager bellissimo e promettente, pieno di personalità e fascino. (Se volete vedere le foto comparative del prima e adesso, cliccate sulla recensione di Business Proposal.)
In Still Seventeen, Seo-ri ha uno straordinario affiatamento con Chan, non solo perché dentro di sé è rimasta una ragazzina come lui. Ma anche perché sono entrambi dolci, innocenti e compassionevoli. Sembrano fatti l’uno per l’altra. Il modo in cui lui tenta di sembrare adulto per poter stare con lei è al tempo stesso dolcissimo e tristissimo, e – benché volessi davvero bene a quel povero essere smarrito di Woo-jin – il mio cuore tifava per Chan.
Nota OT: questa serie merita di essere vista anche per il personaggio di Jennifer, interpretato da un’eccelsa Ye Ji-won. Una donna ‘robotica’, saggia e straordinaria che porta con sé un bagaglio di sofferenza che si disvelerà solo alla fine, stupendo e commuovendo. Miglior arco narrativo del drama.
Voto: 8+/10
Dove vederlo: Viki
Mr. Sunshine, 2018
Concludiamo questa serie dedicata alla sindrome da second lead con un grande classico delle serie TV coreane, Mr. Sunshine, che si differenzia dalle due precedenti. In questo caso, infatti, la mia sindrome è stata ben doppia, avendo diviso il mio cuore tra il tenebroso spadaccino Goo Dong-mae e il solare, elegante Kim Hui-seong.
Non me lo sarei mai aspettata, ma tra le ragioni per cui Mr. Sunshine mi è piaciuto non figura la storia d’amore principale, che ritengo anzi essere l’elemento più debole di tutto il drama.
Mr. Sunshine è un’epopea fortemente ispirante che mette al suo centro ideali quali il patriottismo, la lealtà e il bene collettivo. In un contesto del genere l’amore romantico è considerato una variabile (dolorosamente) trascurabile, specie dalla protagonista, Ae-shin, che ha scelto di abbracciare la causa della ribellione.
Un appunto: concordo con il principio espresso nel drama, e ritengo che sia coerente e corretto. Tuttavia non mi è piaciuto il modo in cui il rapporto tra i protagonisti è stato letteralmente trascinato nel corso delle puntate. Mi è sembrato che non avesse una direzione chiara, e non tanto per esigenze di trama, ma per problemi di scrittura. Insomma, è una storia poco coinvolgente, che si dilunga stancamente senza convinzione e per quanto mi riguarda senza nemmeno troppa chimica (al netto delle singole interpretazioni, che invece sono state splendide).
Ma parliamo invece dei veri mattatori di questo show, quelli che hanno rubato la scena (e il mio cuore) a ogni entrata.
Non c’è alcun dubbio che Goo Dong-mae / Ishida Sho sia un assassino, un venduto, uomo irascibile e opportunista, ma non solo. La grandezza del drama si vede in questo: nel fatto che noi ne percepiamo la complessità interiore, i molti strati, le sofferenze patite e l’amore troppo a lungo soffocato. Non ci arriva come lo spietato traditore che è, ma come un uomo tormentato e carismatico.
Nella puntata 5 c’è la famosa scena della gonna rossa, in cui l’orlo della gonna di Ae-shin sfiora per qualche istante la mano di Goo Dong-mae inginocchiato ai suoi piedi. La definirei una delle scene più caste e al tempo stesso sensuali che io abbia mai visto in un kdrama. Bellissima, intensa, fortemente evocativa.
Quello che mi ha più colpito in questa scena, al di là della realizzazione visivamente magnifica, il fruscio degli abiti, gli sguardi, le emozioni così diverse dei due che si intuiscono anche senza dire nulla, è una considerazione che Goo Dong-mae fa poco dopo.
«Anche la seta taglia»
Goo Dong-mae, Ep. 5
C’è un mondo in quelle quattro parole, ed è tutto il mondo di Goo Dong-mae. Salvato quand’era ragazzino dal palanchino di Ae-shin bambina, vive quel gesto con un misto di amore, riconoscenza e disprezzo. Odia i nobili e le gerarchie, odia le ingiustizie sociali che derivano da una società fortemente classista. Ma non può non amare quella «ricca viziata». Non solo per senso di gratitudine, ma perché rappresenta tutto ciò che lui non è per nascita e per indole: idealista, pura, incorruttibile.
«Anche la seta taglia» significa quindi che anche le cose più belle e i sentimenti più elevati fanno male, creano ferite e sono dolorosi. Lacerano la pelle, come la lama di una katana.
Goo Dong-mae è un grandissimo lead. Alla fine dice di se stesso, con un sorriso triste, d’essere un perdente. Si rende conto che è felice anche solo di aver legato a sé la donna che ama con parole di rancore e umiliazione, anziché d’amore. E ciò gli basta. Ma questo è sufficiente a renderlo un perdente? Io non credo. Resterà per sempre uno dei migliori personaggi della storia dei kdrama.
E poi lui: Kim Hui-seong, l’uomo più ricco dopo il Re, il fidanzato rifiutato, solare, sorridente, sicuro di sé. Un uomo che ama «tutto ciò che è bello e inutile – le stelle, i fiori», tormentato in segreto da una famiglia da cui tenta invano di scappare. Un’anima difficile da capire per Ae-shin che – detto tra noi – non ci prova nemmeno.
Per affinità e temperamento, il mio affetto è andato tutto a Kim Hui-seong, non lo nego. Trovo che la sua sia la storyline più delicatamente tragica, quella che forse fa meno scalpore, ma è anche la più solitaria e la meno compresa.
E’ protagonista di una sua propria incruenta ribellione. Ama nel suo modo discreto e misurato, chiaramente incompatibile rispetto al ‘fuoco’ che divora Ae-shin. Vuole essere accettato e visto per quello che è, non più vittima dello stigma di una famiglia brutale. E’ leale, è colto e affascinante.
Raggiunge il suo obiettivo? Riesce a strappare un frammento di bellezza in questo mondo dilaniato dalla guerra? Forse, ma in un modo del tutto inatteso.
Eugene Choi, captain, non prendertela a male. Ma la tua pistola a corto di pallottole non poteva nulla contro la katana del prode spadaccino e la lingua affilata dell’elegante redattore capo.
Voto: 8.5/10
Dove vederlo: Netflix
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