Negli ultimi tempi, la cronaca riporta episodi di crescente violenza che vedono protagonisti ragazzi sempre più giovani, talvolta persino dodicenni. E la domanda è inevitabile: come ci siamo arrivati? Questo ci porta a riflettere sulla condizione dei giovani, sul loro disagio, che ci parla di una fragilità sempre più diffusa e che sembra ormai essere la norma e non l’eccezione.
Oggi parleremo proprio di questa fragilità, che i social non fanno che alimentare. Per molti ragazzi, i social rappresentano tutto: un luogo in cui cercare approvazione, costruire un’immagine, e ottenere la visibilità che, probabilmente, nella realtà non trovano. Ma tale connessione è così positiva come sembra? Oppure li lascia, in fondo, più soli e più vuoti?
Le serie TV stanno tentando di raccontare questo fenomeno. Ci mostrano giovani intrappolati in mondi in cui la pressione è costante. Parleremo di alcune di queste serie: da Prisma a Euphoria, da Elite a Skam. Serie diverse, ma con un filo conduttore in comune: la rappresentazione di una generazione che lotta per trovare un’identità, schiacciata dalle aspettative irreali di un mondo sempre più connesso, ma sempre meno presente.
TikTok e le challenge estreme: uno specchio del disagio giovanile
Circa un mese fa è balzata agli onori della cronaca la notizia di una 14enne romana rimasta incinta. Ciò che fece discutere di questa notizia furono le modalità della gravidanza. La ragazzina, infatti, aveva aderito a una challenge su TikTok, la cosiddetta “sex roulette”, una sfida che invitava i giovani ad avere rapporti completi non protetti con persone a caso – che spesso si appartavano in luoghi pubblici come giardini poco trafficati.
La sex roulette è solo una delle challenge che circolavano su TikTok. Altre erano i Chinotto tour o i Calippo tour, ad esempio. Come suggerisce il nome, in queste sfide i teenager hanno rapporti orali con sconosciuti, ovviamente il più delle volte senza usare protezioni.
Non è necessario fare troppi commenti per sottolineare la gravità di iniziative di questo tipo, sia per la salute sia per l’incolumità degli adolescenti. Ciò che è più interessante domandarsi è piuttosto il motivo per cui lo fanno.
Motivi psicologici dietro le challenge: cosa spinge gli adolescenti?
Studiando il fenomeno, ho letto i contributi di alcuni psicoterapeuti e psicologi che parlano di una necessità dei giovani di creare sfide per sentirsi vivi, sottolineando il loro senso di invincibilità, quasi un disprezzo verso le conseguenze. Non mi sento di concordare del tutto. In iniziative di questo tipo, il rischio è piuttosto un effetto collaterale. La ricerca del brivido, dell’adrenalina, non è a mio avviso l’obiettivo primario.
Pensiamo all’ambiente in cui questi ragazzi crescono. Il più delle volte, sono lasciati soli a sé stessi, senza una guida o un contesto familiare solido. Spesso, la realtà virtuale diventa per loro un rifugio che dà un (falso) senso di appartenenza, un’illusione di riconoscimento. Si è così che si ritrovano coinvolti in gruppi o iniziative che li fanno sentire meno soli, che offrono loro una convalida. Diventa quasi un rito di aggregazione: partecipare a queste sfide li fa sentire visti e accettati.
In tale contesto, la spinta a partecipare a una ‘challenge’ è un modo per ottenere conferme, per sentirsi riconosciuti, per essere ‘parte di un gruppo’ (aspetto che soprattutto per i giovani è un bisogno basilare). Tuttavia, questa convalida è temporanea e poco autentica, il che spinge i ragazzi a cercare continuamente nuove sfide per riaffermare la loro appartenenza e visibilità.
È un po’ come il cibo spazzatura: lo mangiamo, ne prendiamo una manciata dopo l’altra perché sembra appagante. Il sapore ci stimola, ci attira a continuare, ma alla fine rimaniamo nauseati e senza un vero nutrimento. Allo stesso modo, queste sfide sembrano offrire un senso di appartenenza e convalida, ma lasciano un vuoto. Il problema è che, per continuare a sentirsi parte di qualcosa, i ragazzi si spingono in sfide sempre più rischiose, accettando pericoli reali senza rendersi conto delle conseguenze. Così, quel senso temporaneo di appartenenza si paga a caro prezzo, con comportamenti che possono compromettere seriamente il loro futuro.
Come le serie TV raccontano l’adolescenza
Le serie TV ci offrono una lente interessante per capire il modo in cui le generazioni più giovani vengono ritratte. Ma prima di vedere alcune delle più note, bisogna porsi una domanda. Perché è importante analizzare il modo in cui esse ritraggono il disagio giovanile? In fondo, la maggior parte di questi show sono scritti da adulti, spesso – come nel caso di Euphoria – sono addirittura pensati per un pubblico adulto.
Beh, la ragione è che le serie TV ci mostrano il modo in cui la società interpreta e tenta di spiegare l’universo giovanile, spesso tra pregiudizi, incomprensioni e il tentativo di coglierne l’essenza. In pratica, sono narrazioni mediate da uno sguardo adulto, uno sguardo che cerca – appunto – di capire i giovani. E visto che abbiamo citato Euphoria, partiamo proprio da qui.
Euphoria: la rappresentazione della Gen Z nella serie TV Sky
Euphoria è una serie TV americana uscita nel 2019, e tuttora in corso, che racconta la storia di un gruppo di ragazzi della Generazione Z (quelli nati tra il 1996 e il 2010 per intenderci).
Tutto parte da Rue, una giovane che torna a scuola dopo un periodo passato in riabilitazione per overdose. La ragazza, niente affatto migliorata, continua ad essere preda delle sue ansie e di un passato tormentato, cosa che la spinge verso comportamenti autodistruttivi. Non è tuttavia l’unica.
Attorno a lei gravitano una serie di personaggi più o meno problematici. Alcol, droga, abuso di farmaci, sesso e porno in varie declinazioni, famiglie assenti, bullismo… non c’è un solo argomento scottante che non venga trattato, anzi, esibito in modo piuttosto scabroso in questa serie. Che non per niente è stata vietata a un pubblico di minori.
Io ho un’idea contrastante sullo show – ma in realtà anche sugli altri di cui parleremo. Ma voglio conservare le mie opinioni per la fine dell’articolo. Per ora dirò che sicuramente Euphoria è un ottimo prodotto, perché senza censure o mezze misure, mette a nudo le complessità e le contraddizioni di una intera generazione. Tenta di rappresentarne il senso di smarrimento e la ricerca costante di un’identità in un mondo che sembra non offrire punti fermi.
I giovani protagonisti vivono una realtà schizofrenica, giocata tra l’iper-connessione data dal mondo dei social e la solitudine del mondo reale, esacerbata dalla mancanza di supporto da parte della famiglia. E questo fa emergere tutta la contraddizione tra l’apparente onnipotenza della tecnologia e la fragilità della loro identità.
In ogni episodio noi spettatori ci confrontiamo, e anche piuttosto dolorosamente, con l’idea di quanto siano soli i giovani oggi, così soli da cercare esperienze estreme come unico mezzo per sentirsi vivi.
In questo senso, Euphoria è un racconto molto efficace che offre uno spazio per mettere in scena i fallimenti del mondo adulto, incapace di offrire sostegno o comprensione agli adolescenti. È questo che rende lo show un buon punto di riferimento per chiunque voglia comprendere meglio le tensioni che abitano la mente e il cuore dei giovani di oggi.
Skam Italia: un ritratto realistico dell’adolescenza
Se Euphoria porta all’estremo le difficoltà esistenziali della Gen Z, altre serie cercano di raccontare questo smarrimento in modo diverso, sfumando i toni drammatici e scegliendo una rappresentazione più vicina alla realtà quotidiana. Skam è un esempio perfetto. Nata in Norvegia e poi adattata in vari Paesi, la serie punta al realismo. Ogni episodio è una finestra sul vissuto ordinario dei protagonisti, dal bullismo all’ansia sociale, dalla confusione sessuale all’insicurezza legata al corpo e alla pressione di conformarsi.
Non a caso, Skam è una parola norvegese che può essere tradotta come “vergogna” – un termine che incarna l’essenza stessa dell’adolescenza, periodo in cui il senso di vergogna è un compagno quasi costante. La vergogna per il proprio corpo, per non sentirsi “abbastanza”, per non corrispondere alle aspettative sociali e familiari. Ogni protagonista attraversa questa particolare condizione, trovandosi a fare i conti con un percorso di crescita che passa proprio attraverso l’accettazione e il superamento di questo disagio.
A differenza di Euphoria, Skam adotta un linguaggio visivo e narrativo più soft ma non per questo meno incisivo. La forza della serie sta nella sua semplicità: i personaggi sono ragazzi comuni le cui storie risultano universali. Skam racconta infatti esperienze adolescenziali che tutti abbiamo vissuto – l’insicurezza, il primo amore, il sentirsi fuori posto – radicandole però nella realtà del Paese in cui sono ambientate.
Skam Italia racconta le sfide della fragilità identitaria nell’adolescenza, esplorando stagione dopo stagione le insicurezze e le battaglie interiori dei suoi protagonisti.
La serie affronta temi complessi come il coming out di Martino nella seconda stagione (che ad oggi a mio avviso rimane la più bella). Il suo coming out è un percorso complicato non solo dalla pressione sociale ma anche dalla relazione di Niccolò con una ragazza e dal suo disturbo borderline della personalità. Questo tema mette in luce quanto sia difficile, per un giovane, trovare il proprio spazio quando l’amore e il bisogno di appartenenza si scontrano con la paura del rifiuto e del giudizio, ma anche con problemi di salute mentale.
Un’altra svolta significativa arriva nella quinta stagione, dedicata a Elia, che lotta contro il body shaming e la vergogna legata alla sua condizione di ipoplasia peniena. Il percorso di Elia verso l’accettazione di sé è toccante e inedito: tra sessioni di terapia e la rivelazione del suo segreto agli amici, la serie affronta con coraggio una vulnerabilità che raramente si vede sugli schermi, specialmente declinata al maschile. La sua storia ci ricorda quanto siano fragili le basi dell’identità in questa fase della vita e quanto il giudizio degli altri possa minare la sicurezza interiore.
Nella quarta stagione, vediamo invece Sana, una ragazza musulmana, affrontare il conflitto tra fede e vita sociale, tra il desiderio di essere accettata e la necessità di restare fedele ai propri valori. Il suo percorso verso la maturità è segnato da scelte dolorose, rese ancora più complesse dal contesto di isolamento e incomprensione che vive.
Insomma, Skam Italia non si limita a mostrare le sfide adolescenziali in modo generico, ma le radica nella specificità culturale e sociale italiana, costruendo un racconto che riflette tanto la diversità quanto l’universalità della crescita.
Elite vs Prisma: due visioni contrapposte dell’identità giovanile
Ma cosa succede quando il contesto stesso in cui i ragazzi crescono diventa un personaggio, ovvero una forza in grado di amplificare le loro insicurezze e spingerli oltre i limiti? È qui che entra in scena Elite, la serie spagnola che ha conquistato milioni di spettatori nel mondo. Cosa che, come vi rivelerò tra poco, onestamente mi stupisce non poco. Elite, più che raccontare i dubbi e le crisi identitarie degli adolescenti, li esaspera.
I corridoi lussuosi del liceo Las Encinas non sono solo uno sfondo, ma un vero e proprio campo di battaglia dove ogni relazione diventa un gioco di potere. Guzmán, Lu e gli altri studenti indossano maschere scintillanti, cercando di dominare o proteggere una parte fragile di sé che non vogliono – o non possono – mostrare agli altri. E mentre le rivalità e i segreti si accumulano, emergono storie di bullismo e di dipendenza che vanno ben oltre la facciata – tra mille virgolette – perfetta.
Ora, vi anticipo già che Elite è una serie brutta senza appello. Il motivo per cui ne parlo è che mette insieme tutti i temi ‘caldi’ dell’adolescenza del XXI secolo, e più sono torbidi e problematici, più Elite ci sguazza. Pensate a qualunque argomento spinoso – bullismo, dipendenze, orientamento sessuale, violenza – e qui c’è. Ma invece di approfondirli, la serie li accumula in un calderone sensazionalistico, spingendo su eccessi e colpi di scena in nome di un politically correct di facciata, che serve più ad attirare attenzione che a offrire una reale analisi della società. È come se ogni tematica fosse ridotta a uno strumento narrativo di puro effetto, senza un vero intento di comprensione o critica.
Ma non tutte le serie dipingono il mondo giovanile a tinte forti o con una patina di eccesso. Prisma, ideata da Ludovico Bessegato (già creatore di Skam Italia), sceglie un tono intimo e delicato per esplorare la costruzione dell’identità giovanile.
In Prisma, l’attenzione è sui gemelli Marco e Andrea, due ragazzi che sembrano rispecchiarsi, ma che in realtà percorrono strade interiori molto diverse. È nel loro rapporto con sé stessi, con la propria sessualità e il gruppo di amici che la serie riesce a trasmettere quanto complesso e doloroso possa essere il percorso verso l’autenticità. Tra momenti di scoperta e crisi, la serie esplora in modo quasi poetico la tensione tra il bisogno di sentirsi accettati e il coraggio di uscire dagli schemi. Una sfida che i due fratelli condividono, ma che ciascuno affronta con un proprio linguaggio specifico, in un intreccio di introspezione e vulnerabilità.
Serie TV e adolescenza: il mio punto di vista
Ho un’opinione contrastante sulle serie TV giovanili. Alcune, come Euphoria, sono sicuramente ben realizzate e di grande impatto visivo. Ciò però che mi lascia perplessa è il modo in cui rappresentano un’adolescenza fatta solo di eccessi. Non sto dicendo che temi come bullismo o comportamenti sessuali promiscui non facciano parte del vissuto giovanile, ma non rappresentano la totalità dell’esperienza adolescenziale. Trovo problematico che questi show normalizzino i comportamenti estremi, facendoli apparire come la regola anziché l’eccezione.
Dall’altra parte ci sono serie come Elite che, oltre a essere di qualità discutibile, puntano tutto sugli eccessi e sui più bassi istinti voyeuristici dello spettatore. La narrazione è superficiale, carica di stereotipi e priva di quel respiro critico che ci si aspetterebbe trattando temi delicati. In Elite, le situazioni scabrose sono esibite con un intento puramente sensazionalistico, senza alcuna vera volontà di comprensione o di riflessione, come se i problemi dei protagonisti fossero lì solo per catturare attenzione e non per raccontare qualcosa di autentico.
E poi c’è Prisma, una serie che apprezzo per l’intenzione di esplorare le identità fluide, ma che non riesce a convincermi del tutto. Non condivido l’entusiasmo che ha suscitato sui social, né l’ondata di proteste per il mancato rinnovo della terza stagione. Pur intensa in certi momenti, la vicenda resta a mio avviso cupa e i personaggi, anziché profondi, appaiono confusi. Penso soprattutto a Nina, lesbica dichiarata che a un certo punto vive un’attrazione per Andrea quando è ancora un ragazzo – cosa che francamente manda un messaggio disorientante.
Per farvi capire ciò che intendo, Prisma (come altri show, d’altra parte) non riesce a trasmettere la stessa magia che caratterizza, ad esempio, Heartstopper. Questa serie rappresenta il modello di come dovrebbe essere ideata e realizzata una storia sugli adolescenti: tratta temi complessi con semplicità e genuinità. Heartstopper ci parla di amore e accettazione in una cornice di tenerezza, offrendo un ritratto della giovinezza che, pur tra difficoltà e sfide, si nutre di speranza.
Riflessioni conclusive: la sfida di raccontare l’adolescenza nelle serie TV
Riflettendo su queste rappresentazioni e sul mondo reale, emerge una questione fondamentale: cosa ci stanno dicendo i fatti di cronaca che riguardano i più giovani e i fenomeni come le challenge su TikTok? Che l’adolescenza, oggi più che mai, è un periodo fragile, esposto a influenze e modelli che amplificano l’insicurezza e il bisogno di appartenenza. I social e le serie TV contribuiscono a questa costruzione, offrendo immagini che spesso oscillano tra l’esasperazione del dramma e la superficialità.
La televisione può essere uno strumento potente per raccontare queste sfide, ma la rappresentazione dell’adolescenza che mette in scena deve essere autentica e profonda. Altrimenti, il rischio è quello di finire per normalizzare comportamenti estremi o di alimentare insicurezze anziché offrire spunti di riflessione. Gli adolescenti non hanno bisogno di modelli estremizzati, ma di storie che li aiutino a vedere se stessi in modo onesto, a comprendere che la loro vulnerabilità è normale e che la costruzione dell’identità è un percorso.
L’adolescenza non ha bisogno di essere spettacolarizzata, ma compresa e inserita in narrazioni capaci di restituire dignità e complessità a una fase della vita sì fragile ma ricca di potenzialità.
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