È notizia di poche ore fa che Giuseppe De Domenico interpreterà Raffaele Sollecito nella miniserie dedicata al controverso caso dell’omicidio di Meredith Kercher. Intitolato semplicemente Amanda, lo show sarà composto da otto episodi e si concentrerà sul percorso legale di Amanda Knox, prima condannata e poi assolta per l’omicidio della sua coinquilina.
Le riprese dovrebbero iniziare a brevissimo, nel mese di ottobre, e in Italia la serie sarà trasmessa in streaming da Disney+.
Questa notizia è solo l’ennesima conferma che mi ha spinto a riflettere su una questione più ampia, ovvero il crescente interesse che circonda le Serie e i documentari True Crime. Nel caso specifico, non ignoro che nel 2016 Netflix aveva già prodotto un documentario su Amanda Knox, e ora, a distanza di anni, ci troviamo di fronte a una nuova produzione dedicata allo stesso caso.
La domanda che mi pongo quindi è: avevamo davvero bisogno di una Serie TV che mettesse nuovamente in scena questa triste vicenda?
Ma la riflessione va oltre la singola produzione. Negli ultimi anni, il True Crime è diventato un vero e proprio fenomeno mediatico, alimentato non solo dalle grandi piattaforme streaming come Netflix, Disney+ e Prime Video, ma anche da Canali YouTube, Podcast e altre forme di intrattenimento digitale. Ci troviamo di fronte a una proliferazione senza precedenti di storie di omicidi, processi e tragedie umane che vengono sbandierate, analizzate e consumate su larga scala.
La vera domanda da porsi è infine, come vedremo: quanto di “vero” rimane nel True Crime, quando la verità viene manipolata e spettacolarizzata per ottenere audience e visualizzazioni? Proveremo a rispondere a questa domanda.
Le origini del True Crime
Le origini del True Crime possono essere rintracciate già nel 1617, con Il libro degli imbrogli, un testo della dinastia Ming che raccoglie storie di frodi e inganni reali. Questo libro rifletteva le preoccupazioni dell’epoca sulla moralità e la fiducia, mescolando cronache di vita quotidiana con elementi di finzione narrativa, e rappresenta uno dei primi esempi di letteratura incentrata su crimini reali.
Nel XVI e XVII secolo, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, l’aumento dell’alfabetizzazione portò alla diffusione di opuscoli e ballate che raccontavano crimini violenti, spesso con un tono sensazionalistico. Questi testi erano destinati soprattutto alle classi medie, e diventarono i primi esempi di giornalismo criminale popolare.
Ma il vero punto di svolta avvenne nel XX secolo con Truman Capote e il suo A Sangue Freddo (1966), un’opera che unì reportage e narrativa, segnando l’inizio del True Crime moderno. Capote non si limitò a raccontare i fatti, ma esplorò in profondità la psicologia degli assassini, gettando le basi per il successo globale del genere.
Ciò che A Sangue Freddo ha fatto è stato aprire una finestra sul lato oscuro della natura umana, trasformando una vicenda tragica in una narrazione che ha saputo catturare l’immaginazione del pubblico. L’attenzione meticolosa ai dettagli e la lunga ricerca svolta dall’autore hanno fatto sì che il libro non fosse la mera cronaca di un omicidio, ma piuttosto l’analisi della fragilità e delle contraddizioni della psiche umana.
In questo modo, Capote ha tracciato il punto di riferimento per il nuovo genere True Crime, stabilendo lo standard che ancora oggi influenza il modo in cui vengono raccontati i crimini.
In Italia, due nomi di spicco nel panorama del True Crime sono Carlo Lucarelli e Massimo Picozzi. Lucarelli ha portato i racconti criminali in televisione con programmi come Blu Notte, mentre Picozzi, criminologo e psichiatra, ha combinato competenze scientifiche e divulgazione attraverso libri e collaborazioni televisive. Entrambi hanno contribuito a rendere il genere accessibile al grande pubblico.
Il True Crime nell’era digitale. Serie TV, Podcast e internet: cosa è cambiato?
Con l’avvento delle piattaforme digitali, il True Crime ha subito una vera e propria metamorfosi, cambiando il modo di raccontare i crimini. Vediamo nel dettaglio in che modo
Prima svolta del True Crime: la “serializzazione”
Le piattaforme streaming come Netflix o Prime Video, i Podcast e YouTube hanno cambiato il modo di raccontare i crimini. Quello che prima veniva detto in un singolo episodio è ora sviluppato in serie più lunghe, con puntate approfondite e dettagliate.
Questi nuovi formati consentono di esplorare analiticamente non solo il crimine, ma anche la psicologia dei criminali, le implicazioni sociali e il lato umano delle vittime.
Serie come Making a Murderer o Giù le mani dai gatti: caccia a un killer online (solo per citarne un paio, meno mainstream di altre) sfruttano appieno la lunghezza e la libertà del formato seriale per indagare ogni aspetto del caso, spesso anche il background dei genitori degli assassini, facendo sentire lo spettatore parte di un’indagine prolungata e complessa.
Seconda svolta del True Crime: la nascita dei “detective digitali”
La digitalizzazione del True Crime ha portato a un coinvolgimento molto più attivo del pubblico. I Podcast, i forum, i gruppi social e i canali YouTube dedicati alla narrazione di crimini permettono agli utenti di essere non solo consumatori passivi, ma veri e propri investigatori. Le teorie vengono scambiate, i dettagli analizzati, e in alcuni casi sono gli stessi spettatori a scoprire indizi nuovi.
Il documentario The Keepers e il podcast Serial sono esempi emblematici di come il pubblico possa svolgere un ruolo cruciale nell’approfondire o addirittura riaprire i casi. In The Keepers, l’interesse del pubblico portò alla raccolta di nuove testimonianze sugli abusi sessuali legati all’omicidio di suor Cathy Cesnik. Nel caso del podcast Serial, che indagava sulla condanna di Adnan Syed per l’omicidio della sua ex fidanzata, il coinvolgimento degli ascoltatori contribuì alla riapertura del processo, portando addirittura all’annullamento della condanna.
Non solo consumatori, quindi, ma detective digitali. Questa interazione crea un legame forte tra il pubblico e il contenuto, trasformando il True Crime in un’esperienza molto coinvolgente.
Terza svolta del True Crime: la democratizzazione della produzione
Con YouTube e i Podcast, la produzione di contenuti True Crime è diventata possibile per chiunque abbia accesso a internet e una storia da raccontare. Questo ha portato a una democratizzazione del genere. Non sono più solo le grandi produzioni a creare contenuti, ma anche creator indipendenti. La qualità dei contenuti può variare, ma l’accesso alle piattaforme ha reso il True Crime un genere partecipativo, con narrazioni che vanno dal giornalismo d’inchiesta alle riflessioni più personali.
Quarta svolta del True Crime: la spettacolarizzazione del crimine
Un altro aspetto cruciale dell’era digitale è la crescente spettacolarizzazione del crimine. Le piattaforme streaming e i media online, nel loro tentativo di attrarre più spettatori, hanno trasformato i casi di cronaca nera in veri e propri show, dove il confine tra informazione e intrattenimento diventa sempre più labile.
Serie come Dahmer o Monsters, La storia di Lyle ed Erik Menendez non si limitano a raccontare i fatti, ma spesso enfatizzano gli aspetti più macabri per tenere alta l’attenzione del pubblico. Questa tendenza può portare a una rappresentazione distorta del crimine. I dettagli cruenti vengono ingigantiti, le vittime rischiano di essere dimenticate o strumentalizzate, mentre i carnefici diventano figure quasi mitiche.
True Crime: quanto c’è di “true”?
YouTuber parlano di violenze e massacri mentre fanno skincare routine. Content creator raccontano di omicidi e procedimenti giudiziari mentre si truccano. Oggi siamo di fronte a una normalizzazione della violenza che ci costringe ad alcune riflessioni.
I crimini reali sono diventati uno show, un intrattenimento. Non si tratta più di raccontare una tragedia per comprenderla o per riflettere sulle sue implicazioni sociali, ma di offrirla come contenuto da consumare facilmente. La brutalità e il dolore vengono confezionati in format accattivanti e leggeri, adatti a catturare l’attenzione del pubblico.
Ma non sono solo i creator a trasformare crimini in contenuti accattivanti per i loro follower. Anche le piattaforme streaming piegano le vicende e le strumentalizzano, al solo scopo di renderle più avvincenti per i loro spettatori. Ma qui non stiamo parlando di semplici racconti di fantasia: si tratta di storie vere, spesso dolorose e tragiche. Il fatto che vengano manipolate in nome dello spettacolo è, senza bisogno di sottolinearlo, profondamente triste e moralmente discutibile.
Porto un paio di esempi. I familiari di Robert Mast, vittima di omicidio nel 2015, manifestarono esplicitamente il loro dolore quando Netflix annunciò la produzione di una docuserie sul caso. Nonostante le proteste, I Am a Killer fu realizzata, costringendo amici e parenti a rivivere quel trauma. Un altro caso, più recente, è stato quello di Erik Menendez, che ha espresso indignazione per il modo in cui Netflix, nella serie Monsters, ha non solo spettacolarizzato il suo drammatico passato, ma addirittura messo in scena fatti distorti al solo scopo di solleticare i più bassi istinti del pubblico (se volete sapere a cosa mi riferisco, vi rimando alla mia recensione).
Di fronte a tutto questo, viene da chiedersi: quanto resta di vero nel True Crime? Se la verità viene piegata alle esigenze dell’audience, sacrificata per ottenere più views e generare maggiore spettacolo, possiamo davvero parlare di storie fedeli alla realtà? O si tratta solo di un’altra forma di intrattenimento travestita da cronaca?
Il pericolo della ‘romanticizzazione’ del male
Poco dopo l’uscita di Dahmer, è emerso un trend preoccupante su TikTok. Numerosi utenti, in particolare giovani, hanno iniziato a pubblicare video in cui esprimevano una fascinazione molto forte per il personaggio di Jeffrey Dahmer, il serial killer interpretato da Evan Peters.
Ora, non mi voglio soffermare più di tanto sulla manifestazione che ha assunto questo fenomeno perché lo ritengo decisamente deviato. Quello che mi interessa sottolineare è il significato che sottende. Questo trend è sintomatico di una più ampia problematica: sovrapporre la finzione e la realtà, l’incapacità di distinguere un attore da un serial killer.
Romanticizzare il male solo perché pensiamo che il protagonista di una Serie TV sia bello, sexy o attraente, è estremamente grave, e per un doppio ordine di motivazioni. Da un lato, c’è una progressiva banalizzazione del male. Una desensibilizzazione nei confronti della violenza, che porta a empatizzare più verso il criminale che verso le vittime.
Dall’altro lato, si infligge ulteriore sofferenza alle famiglie delle vittime, che vedono i loro cari ridotti a semplici strumenti di spettacolo, mentre l’attenzione resta sul criminale. Trattate come mero elemento narrativo, le vittime vengono sacrificate ancora – questa volta in nome dell’intrattenimento.
True Crime: passione o morbosità?
La domanda che oggi dobbiamo porci è: siamo andati troppo oltre? Prendiamo solo i casi recenti, come il documentario su Yara Gambirasio, Oltre ogni ragionevole dubbio, o la nuova miniserie su Amanda Knox. O ancora, la terza stagione di Monsters, che si concentrerà su Ed Gein, il “macellaio di Plainfield”. Queste storie – lo ripeto – non sono solo racconti di fantasia, e la loro continua narrazione rischia di spostare i confini del genere sovraesponendoci alla violenza.
Ogni nuova produzione aggiunge un livello di spettacolarizzazione che ci porta a consumare e passare oltre, dimenticando che dietro c’è il dolore reale di vittime e famiglie. Questo accade perché ci avviciniamo a questi contenuti con la stessa leggerezza con cui affronteremmo un film o una storia di fantasia.
A cosa stiamo rinunciando in nome dello spettacolo? Forse è il momento di riflettere sul prezzo che si paga per trasformare la tragedia in un genere di consumo.
Invito a riflettere: anche se i creatori delle Serie TV dichiarano che il loro intento è quello di voler dare voce alle vittime, spesso le famiglie interpellate descrivono questi programmi come «ri-traumatizzanti». Pensiamoci la prossima volta che schiacciamo Play sul nostro telecomando.
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