Recensione di un capolavoro che fa dell’amore il suo più grande messaggio
It’s okay to not be okay è stato il mio primo drama quando non sapevo nemmeno cosa fossero i drama. Netflix continuava a metterlo in evidenza e un giorno, per sfinimento, ho ceduto. Credo sia superfluo dire che nel giro di 10 minuti ero catturata. Ho letteralmente seguito una farfalla (leit motiv di questa serie), attraversato uno specchio magico e mi sono ritrovata come Alice in un mondo tutto nuovo dal quale non voglio più tornare.
Benché sia passato del tempo da quando l’ho visto, ne ho un ricordo abbastanza nitido – sintomo che il primo amore non si scorda mai e che si tratta indubbiamente di un buon prodotto.
La storia è nota avendo avuto, soprattutto a livello internazionale, molto successo. Moon Gang-tae (Kim Soo-hyun) è infermiere presso un istituto psichiatrico, e ha un fratello maggiore autistico, Moon Sang-tae. Ogni anno, non appena sopraggiunge la stagione delle farfalle, i due devono cambiare città, perché Moon Sang-tae ha una vera e propria fobia per questi insetti. Il motivo, che scopriremo solo nel corso delle puntate, è legato a un evento traumatico accaduto durante l’infanzia.
L’incontro che cambierà loro la vita è quello con Ko Mun-young (Seo Yea-ji), celebre ma problematica scrittrice di libri per bambini, la quale non solo si innamorerà di Moon Gang-tae, ma scoprirà di condividere un tragico passato con i due fratelli.
La forza di questo drama non è tanto nella sua trama (che pure è appassionante), ma nella scrittura ed evoluzione dei personaggi. Se a questo aggiungiamo il fatto che It’s okay to not be okay ha coraggiosamente scelto di affiancare alla coppia principale un terzo protagonista autistico, direi che sicuramente l’aspetto psicologico e introspettivo è preponderante.
L’interpretazione di Oh Jung-se, poi, è magistrale. Meritatissimo il premio come Miglior attore non protagonista ai Baeksang Arts Awards 2020.
Quando alla fine dell’episodio 9 Moon Sang-tae si scaglia contro il fratello e questi piange rannicchiato per le scale dell’ospedale psichiatrico, ho dimenticato per un attimo di essere una mera spettatrice. L’immedesimazione e il dolore sono stati tanto intensi da lasciarmi senza fiato. La violenza di quell’attacco mi ha fatto pensare a Caino e Abele, perché si tratta di un tradimento feroce e archetipico. E’ il fratello che colpisce al cuore il proprio fratello per gelosia.
Capisco quindi che questo non sia un drama adatto a tutti, perché suscita reazioni emotive molto forti.
C’è poi aspetto potenzialmente disturbante, ed è legato al finale. Ho amato il fatto che, dopo tanta angoscia, tutti i personaggi finalmente trovassero una loro serenità e il loro posto nel mondo. E’ stato consolante poter tirare un sospiro di sollievo e riposare nell’illusoria convinzione che ogni cosa fosse risolta per il meglio – proprio come una bella fiaba un po’ dark, di quelle scritte da Ko Mun-young.
Ma è, appunto una convinzione illusoria. Nella realtà non sono sufficienti la pazienza, la dedizione o il romanticismo per curare le malattie mentali. E’ anzi un messaggio incompleto quello veicolato dal drama che si possa guarire da soli o solo con l’aiuto dell’amore. L’amore aiuta e sostiene, ma non è sufficiente.
Detto questo, consiglio di guardare la serie come se fosse una favola dai toni gotici e moderni. Abbiamo una principessa che è anche strega. Memorabile la scena in cui spaventa la bambina che vorrebbe farsi una foto con lei, e quella scappa via urlando. Elegante, bellissima, dalla voce profonda e sensuale. Trasuda carisma, ma anche fragilità. Il suo personaggio è sfaccettato e complesso, non solo perché si porta dietro un pesante vissuto infantile, ma perché ha scelto di essere una donna onesta con se stessa, ai limiti del cinismo.
Non nego di essere rimasta affascinata dal modo in cui il suo personaggio dichiara guerra all’ipocrisia del mondo, senza fare sconti a nessuno – tanto meno a se stessa. Ho avuto l’impressione di una donna battagliera ma disarmata di fronte all’amore. Una donna che a suo modo (un modo disfunzionale ma efficace) è stata in grado di affrontare il dolore e di accaparrarsi il successo. Eppure, una donna che si scopre fragile e vulnerabile non appena s’innamora. E in quel momento inizia il suo percorso di guarigione.
Speculare il percorso di Moon Gang-tae. L’infermiere ha messo in stand-by la propria esistenza in funzione del fratello malato. Questo fine così nobile e altruistico lo ha però costretto a vivere una vita di «quieta disperazione». (Rings a bell? E’ la celebre frase di Thoreau citata nell’Attimo fuggente dal professor Keating…)
Al tempo stesso, avendo sempre vissuto all’ombra di Moon Sang-tae, in una famiglia in cui le sue esigenze e i suoi bisogni venivano messi in secondo piano, ha disperatamente bisogno del fratello per sentire di valere qualcosa. Solo nel prendersi cura di lui, infatti, ha una convalida del suo valore e della sua ragion d’essere. Moon Gang-tae è un personaggio che esprime grande fragilità, complessità e abissali carenze d’amore.
Inutile dire che i due, la scrittrice e l’infermiere, nella loro estrema diversità, sono perfetti l’uno per l’altra. E lo dimostrano sulla carta (la sceneggiatura) ma anche gli attori con una recitazione straordinariamente convincente.
Ci sono anche aspetti deboli in It’s okay to not be okay. Ad esempio, le storyline dei personaggi secondari non brillano. Il tentativo di triangolo è ridicolo, e mi spiace particolarmente perché coinvolge un’attrice che adoro, Park Gyu-young (Dali and Cocky prince), qui invero molto sottotono.
Questi aspetti, però, sono compensati da altri eccellenti, oltre quelli già detti. Per citarne alcuni, l’uso di tecniche miste (stop motion e animazione), l’ispirazione burtoniana delle ambientazioni e delle illustrazioni di Moon Sang-tae, e la cura dei dettagli in ogni inquadratura.
Complessivamente, un’opera bellissima con cui iniziare il viaggio nei drama coreani.
Voto: 9+/10
Numero puntate: 16
Durata: 1h 20 circa
Dove vederlo: Netflix
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