Perché la Corea ha un problema enorme con il cyberbullismo

Corea-cyberbullismo

Negli ultimi tempi, ondate di odio online hanno travolto idol e attori, spesso per motivi insignificanti, scatenando una reazione violenta da parte dei netizen. Un commento fuori posto, un gossip, un comportamento che devia dalle aspettative e il massacro mediatico è immediato.

Ma perché accade con una tale intensità proprio in Corea del Sud? Per rispondere, dobbiamo guardare alla struttura stessa della società coreana. Un Paese altamente omogeneo, dove quasi tutti condividono la stessa cultura, la stessa lingua e gli stessi valori.

Questo senso di unità porta coesione, ma anche una pressione sociale schiacciante. Il successo non è solo un obiettivo personale, ma una misura di valore agli occhi degli altri. In un sistema così rigido, dove la competizione inizia fin dall’infanzia e l’apparenza è tutto, il giudizio diventa costante. E quando questa mentalità incontra l’anonimato e la viralità dei social, il risultato è un cyberbullismo feroce e pervasivo.

In questo articolo analizzeremo come la struttura sociale coreana alimenti questa dinamica. Vedremo quali sono le conseguenze più gravi e cosa potrebbe portare a un cambiamento.

In Corea del Sud, la competizione inizia presto. Fin dall’infanzia, i bambini vengono spinti a studiare senza sosta, accumulando fino a 15 ore al giorno tra scuola, ripetizioni private e studio individuale. L’obiettivo? Entrare in una delle tre università più prestigiose del Paese, le cosiddette SKY (Seoul National University, Korea University e Yonsei University). Un traguardo che può determinare il resto della loro vita. Ne avevo parlato in un articolo che vi lascio qui sotto.

Ma non basta semplicemente laurearsi. Bisogna eccellere, ottenere voti altissimi, accumulare certificazioni, partecipare ad attività extracurricolari e conquistare stage nelle migliori aziende. Per molti, il sogno è uno solo: entrare in un colosso come Samsung, simbolo di stabilità e successo economico.

Le professioni considerate rispettabili sono poche: medico, giudice, insegnante, ingegnere. Tutto il resto è spesso visto come un ripiego, una dimostrazione di scarso valore. Se un bambino si concede una pausa dallo studio, si pensa che stia perdendo tempo e compromettendo il proprio futuro.

Questa mentalità si trascina fino all’età adulta. La pressione a eccellere e il giudizio sociale non si ferma con la carriera, ma continua nel matrimonio, nella vita familiare, nel modo in cui si appare fisicamente. In una società dove contano solo i risultati, chi sbaglia viene osservato, criticato e, nei casi peggiori, messo alla gogna.

In Corea del Sud, il giudizio è una costante. Ogni individuo viene valutato in base al proprio successo accademico, lavorativo e familiare. L’apparenza, poi, gioca un ruolo fondamentale. Se vuoi approfondire questo argomento, ti suggerisco di leggere questi articoli:

Questo crea un ambiente estremamente competitivo, in cui non essere all’altezza degli standard può significare perdere valore agli occhi della società. Ma la pressione non si limita alla competizione: genera anche frustrazione, risentimento e un costante bisogno di confermare il proprio status.

Ed è qui che entra in gioco Internet. I social network e i forum coreani sono il riflesso di questa mentalità, amplificando il giudizio collettivo e trasformandolo in una vera e propria arma. Basta che una celebrità venga coinvolta in uno scandalo – anche per un semplice gossip o una dichiarazione mal interpretata – perché scatti un’ondata di odio incontrollabile. Commenti aggressivi, richieste di ritiro dalla scena pubblica e insulti anonimi si moltiplicano, creando un effetto domino in cui migliaia di persone si sentono legittimate a partecipare al massacro mediatico.

Insomma, internet diventa il ricettacolo della frustrazione collettiva.

Protetti dall’anonimato, gli utenti riversano il loro odio senza conseguenze dirette, dando vita a vere e proprie shitstorm che possono distruggere la reputazione e la vita di una persona nel giro di poche ore. Una dinamica che non solo colpisce le star, ma riflette il modo in cui la società coreana gestisce il fallimento e la devianza dagli standard imposti.

Qui sotto, vi lascio solo due dei molti casi che hanno travolto l’opinione pubblica coreana, pur con effetti diametralmente opposti.

Quando si parla di cyberbullismo e pressione sociale in Corea del Sud, l’attenzione si concentra spesso sulle star travolte dagli scandali. Ma c’è un lato meno visibile, e ancora più drammatico: le categorie più deboli della società, abbandonate a loro stesse in un sistema che premia solo chi ce la fa.

Gli anziani, ad esempio, rappresentano una delle fasce più colpite. La Corea ha uno dei tassi di suicidio più alti al mondo tra gli over 65. Molti di loro vivono in condizioni di estrema povertà, senza una rete familiare su cui contare e con un welfare quasi inesistente. In una società che valorizza la produttività sopra ogni cosa, chi non è più in grado di contribuire economicamente viene spesso dimenticato.

Il calo delle nascite è l’altra faccia della stessa medaglia. Mettere su famiglia in Corea è sempre più difficile. Il costo della vita è elevato, le aspettative sociali sono opprimenti e le donne, ancora penalizzate sia nel mondo del lavoro che nella gestione familiare, scelgono sempre più spesso di non sposarsi e non avere figli. Un problema che il governo sta cercando di affrontare, ma che non è di facile soluzione. Ne ho parlato in un’intervista che vi lascio qua sotto.

Perché il Giappone sta riducendo i suicidi e la Corea no?

Il suicidio è un problema che segna profondamente sia il Giappone sia la Corea del Sud. Eppure, mentre in Giappone il numero di casi è in calo, in Corea resta allarmante. La differenza? Gli investimenti nella prevenzione e un approccio strutturato alla salute mentale.

Il Giappone ha fissato un obiettivo chiaro: ridurre il tasso di suicidi del 30% entro il 2026 rispetto ai livelli del 2015. Per raggiungere questo risultato, il governo ha adottato misure concrete, aggiornando il General Principles of Suicide Prevention Policy (GPSPP) e stanziando molti fondi. Pensate che nel 2018 il governo giapponese stanziò circa 795 milioni di dollari per la prevenzione del suicidio, mentre la Corea appena 16,8 milioni!

Un divario stupefacente, che mostra, da un lato, quanto la prevenzione in Giappone sia diventata una priorità di salute pubblica. Dall’altro, ci rivela che purtroppo in Corea, invece, la situazione è ben diversa.

La prevenzione del suicidio resta sottovalutata e sottofinanziata, e la salute mentale è ancora un tabù sociale. Senza un sistema di supporto solido e senza un cambiamento nella percezione del problema, il peso della competizione e del giudizio sociale continuerà a schiacciare chi non riesce a stare al passo.

Se esiste una soluzione, passa da una società più aperta. Il problema della Corea del Sud non è solo la competizione, ma l’incapacità di accettare chi esce dagli schemi prestabiliti. In un sistema in cui l’omogeneità è la norma, essere diversi significa essere giudicati, isolati, esclusi.

Le persone LGBTQ+ affrontano discriminazioni quotidiane e un riconoscimento legale pressoché inesistente. Chi ha disabilità si scontra con un sistema che garantisce scarsa accessibilità e poche opportunità nel mondo del lavoro. Anche chi semplicemente non rientra nei rigidi standard di bellezza può subire una pressione sociale schiacciante, bullismo e ripercussioni profonde sulla salute mentale.

Ma una società che si misura solo sul successo finisce per diventare soffocante.

Eppure, la Corea ha dimostrato più volte di sapersi rialzare. Ha combattuto per la sua libertà e ha vinto. Ha saputo trasformare in pochi decenni una realtà poverissima in una delle economie più avanzate del mondo. La sua capacità di adattarsi e innovare è immensa.

Ma per compiere un vero passo avanti, serve un vero e proprio ribaltamento culturale. Aprirsi alla diversità non significa perdere la propria identità, ma costruire una società in cui le persone possano esistere senza paura di essere giudicate. Perché il vero progresso non si misura solo nei numeri dell’economia, ma nella capacità di garantire dignità e spazio a tutti, indipendentemente da chi siano, da come appaiano o da quale sia il loro posto nel mondo.

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