Credo che la mia recensione di Somedoby, thriller erotico coreano di successo, sbarcato su Netflix a fine 2022, sarà particolarmente dura. Alte erano le aspettative prima della visione, e altrettanto alta è stata la delusione provata alla fine. Cerchiamo di capire insieme il perché.
Somebody, la recensione. Tutto quello che non funziona in questo kdrama
Partiamo col dire che i primi 10 minuti di Somebody mi hanno elettrizzata. Ci troviamo di fronte a una talentuosa ragazzina di nome Kim Sum, la quale viene assunta da un uomo per hackerare le macchine della lotteria nella sua sala giochi.
I soldi guadagnati vengono da lei usati per l’imminente concorso scolastico di programmazione. In quell’occasione quasi nessuno fa caso a lei e al suo progetto. Solo una donna le si avvicina per chiederle cosa abbia preparato. Kim Sum spiega che si tratta di «Someone», un chatbot che ha la particolarità di tenere traccia di ogni testo che gli utenti digitano e poi cancellano prima di inviare.
Un’idea tanto semplice quanto intelligente. Scopriamo presto che quell’idea è frutto della particolare condizione di Kim Sum. Affetta dalla Sindrome di Asperger, la ragazza fin dall’infanzia ha grandi difficoltà nel riconoscere e gestire le emozioni, e per questo conduce una vita piuttosto grigia e solitaria.
*** Attenzione: la recensione contiene spoiler ***
Le motivazioni psicologiche sono deboli
Il drama è esplicito in questo: i suoi personaggi sono guidati dal bisogno fondamentale di essere compresi. Tuttavia, proprio qui emerge la prima grande lacuna di Somebody. Le motivazioni psicologiche che li guidano sono di volta in volta poco credibili, sciocche, controproducenti e assurde. Quando non addirittura assenti – cioè, non ci vengono dette. Facciamo degli esempi.
Bello il tentativo di includere il tema LGBT, presentando una storia lesbica. Ma la relazione tra la sciamana e la sua amante non ha spessore. Se pensiamo a Hikari Kuina in Alice in Borderland, capiamo subito la differenza. Non è necessario dedicare minutaggio importante a un personaggio, è sufficiente dotarlo di una storia potente e di un contesto valido. Qui purtroppo non è successo.
La mancanza più grave è relativa al main lead maschile, Yun-o. Serial killer efferato, affetto da tratti sadici e sociopatico, la sua storia e il suo vissuto mai vengono indagati. Che cosa lo ha spinto a diventare la persona che è? Qual è il suo percorso? Non lo sappiamo.
La lacuna si fa ancora più profonda sul finale quando l’uomo, ‘trasfigurato’ dall’amore, pare provare qualcosa di simile al rimorso e sembra pronto a iniziare una nuova vita nella casa che ha progettato per la sua donna. Il cambiamento avvenuto è poco convincente, mal spiegato e psicologicamente disturbante. A me personalmente ha infastidito il tentativo di romanticizzare un assassino seriale dai tratti sadici, spingendo lo spettatore a provare empatia e solidarizzare con lui. L’ho trovato francamente disgustoso.
E per finire, merita un cenno anche l’altro personaggio principale, la poliziotta sulla sedia a rotelle. Da chiedersi come una mente tanto brillante da andare per ben due volte a un appuntamento al buio (da sola!) in luoghi sperduti sia potuta entrare in Polizia.
Una visione superficiale dell’amore
Tutta la faccenda dell’innamoramento mi ha disturbato parecchio. Sia quello della protagonista per l’assassino, sia quello dell’assassino per la protagonista. Se di lui abbiamo già parlato, mi concentrerò ora sulla protagonista.
Ci spiegano più volte che Kim Sum è affetta da sindrome di Asperger, e che fin da bambina fatica a comprendere le emozioni – proprie e altrui. Nonostante questo, nel momento in cui conosce qualcuno che le pare affine s’innamora come un’adolescente.
Ma lo sbocciare di questo amore non ci viene descritto passo passo. No, sorge repentino dopo un paio di chat e un incontro. Boom. Cotta come una pera. Possiamo pensare che tramite Yun-o la protagonista riesca in qualche modo a esprimere la propria latente inclinazione verso la violenza – come emblematicamente rivela la scena del gatto morente.
Eppure, è forte il sospetto che quell’amore non sia niente più di un acerbo prurito. Manca di ogni profondità, e ce lo dice il fatto che la scoperta che il mandante del tentato stupro di gruppo fosse proprio Yun-o non turba più di tanto Kim Sum.
Ogni evento è un avvicendarsi di fatti insensati
Ho già citato di sfuggita l’incongruente comportamento della poliziotta sulla sedia a rotelle, che più di una volta incontra degli sconosciuti in luoghi isolati. Questo comportamento, tuttavia, non si limita a lei.
Anche i personaggi secondari hanno atteggiamenti incoerenti che minano la credibilità del drama. Mi riferisco ad esempio agli operai che lasciano sola una donna con disabilità in un luogo di demolizione. Oppure alla polizia di Seoul (non dimentichiamolo, la città più videosorvegliata del mondo), che pure lascia scorrazzare a piede libero un serial killer temibile.
Insomma, molto viene sacrificato all’esigenza di romanzare per tenere alta la tensione dello spettatore, ma con pessimi risultati.
Somebody: un uso spregiudicato delle scene di sesso
Voglio concludere questa recensione parlando dell’argomento più discusso: un uso più spregiudicato della skinship. Cosa che, trattandosi di una serie coreana, ha sicuramente fatto scalpore.
Chi più chi meno, tutti i personaggi di Somebody sono avvolti da una solitudine vischiosa e profonda. Il sesso occasionale è lo strumento che tutti usano per colmare quel vuoto, e per lo più viene tratteggiato come una serie di incontri avventati e potenzialmente rischiosi.
Da un lato, lo show è efficace nel descrivere il sesso come desiderio di connessione e strumento di liberazione femminile. Dall’altro, però, col procedere degli episodi, il tutto diventa ripetitivo e superfluo. Detto altrimenti: il sesso in Somedoby è l’unico modo in cui i personaggi esprimono una connessione, un legame. Il che di fatto rende piuttosto superficiali i rapporti.
Somebody, cosa funziona
Somedody è una serie deludente, pretenziosa e confusa sia nelle intenzioni sia nella realizzazione.
Due sono gli elementi davvero validi che non la rendono un completo flop. Il primo è una bellissima colonna sonora, che amalgama sapientemente musica pop e classica creando un’atmosfera suggestiva.
Il secondo è la magistrale interpretazione di Kim Young-kwang (già visto in Hello, Me! in un ruolo completamente diverso). Il modo sfaccettato e intenso in cui rende il serial killer Yun-o è davvero stupefacente e credibile, ben al di là della scrittura del personaggio.
Solo per questi due elementi il drama riesce a non affondare.
Voto: 5.5
Numero episodi: 8
Durata: 50 min. circa
Dove vederlo: Netflix (anche doppiato)
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