C’era una volta una k-influencer…
Un ruolo che ho vissuto in prima persona, ma, come spesso accade, la realtà è stata ben diversa da una favola.
All’inizio sembrava tutto elettrizzante: l’amore per la Corea e i drama, una Community forte e calorosa, la condivisione di una passione autentica… Ma poi le cose hanno iniziato a cambiare.
Negli ultimi anni, ho visto da vicino il modo in cui il mondo dei k-drama e dei k-influencer è cambiato, e non sempre in meglio. Quella che era iniziata come una grande passione collettiva per la cultura coreana si è trasformata in qualcosa di diverso. I contenuti che un tempo erano autentici e genuini hanno iniziato a diventare una gara di numeri e popolarità, un meccanismo che ha messo da parte la vera conoscenza per fare spazio ai facili consensi. E questo è solo uno degli aspetti di cui vi parlerò oggi.
Ma non è tutto. In questo articolo della Rubrica «Libri & altri Disastri», vi racconterò come e perché ho deciso di prendere le distanze da quel mondo.
Analizzeremo i motivi per cui non potevo più continuare a farne parte. Cercheremo di capire qual è il ruolo degli influencer e delle aziende in tutto questo, e anche le caratteristiche di una certa parte di follower e amanti della Corea. Scoprirete le contraddizioni e le insidie di un mondo che sembra scintillante all’apparenza, ma nasconde parecchie ombre.
Perché, nelle fiabe, non è detto che il lieto fine sia sposare il principe azzurro… soprattutto se è coreano! Oggi, per la prima volta, vi racconterò quello che succede quando il finale da favola si scontra con la realtà – quella parte che nessuno vi racconta mai.
L’onda coreana: come i k-influencer hanno invaso i social media
Negli ultimi due anni, abbiamo assistito a un’esplosione di canali e profili dedicati ai k-drama e alla Corea. Un fenomeno che è letteralmente divampato, con un’infinità di wannabe-influencer che si sono improvvisati esperti di Estremo Oriente.
E indovinate un po’? Nella maggior parte dei casi, le loro informazioni sono basate esclusivamente sul sentito dire o sulla visione di qualche serie coreana. Ma perché questa invasione di profili Korean-oriented? Perché parlare di Corea è premiante, e ottenere follower e consensi è sorprendentemente facile. O almeno, lo era.
Quali sono le caratteristiche principali della maggior parte di questi profili? Vediamole insieme.
La visione idealizzata della Corea e dei coreani
Parlare di Corea per molti k-influencer è come vivere in un eterno drama romantico. Raccontano storie sognanti su uomini perfetti (e inesistenti), infilano parole coreane a caso nelle frasi e si fanno selfie nei ristoranti ‘coreani’, senza sapere che spesso il cibo coreano in italia è tutt’altro che autentico, in quanto adattato ai gusti degli italiani.
Ne avevo parlato in un articolo, rivelando alcune verità scomode che i social faticano a gestire (o non vogliono rivelare).
Quella che circola sui social è insomma una visione idealizzata e fiabesca della Corea. Io non ho mai voluto alimentare quel sogno a occhi aperti, perché la Corea è molto più di questo, e il compito di chi ne parla dovrebbe essere quello di raccontarla nella sua realtà.
Da quando sono sui social, ho visto crescere velocemente il fenomeno dei k-influencer, e ho assistito con i miei occhi a una trasformazione che ha stravolto il modo in cui la Corea veniva raccontata.
Molti si prodigano a dare informazioni un tanto al kilo su skincare coreana, altri sulle ricette, altri ancora sulle tradizioni – qualcuno addirittura si avventura nel True Crime coreano, come se non avessimo già abbastanza violenza dalle nostre parti. Vi assicuro che il mio Feed è un susseguirsi di post tutti uguali, e tutti ugualmente superficiali.
Dalla mia esperienza sui social (… ma senza fare nomi!)
Io non commento praticamente mai i profili degli altri influencer, perché paradossalmente non sono molto social. Un giorno però vidi un reel – ammetto di non ricordare affatto l’argomento specifico – che conteneva un’informazione errata sulla Corea. Lasciai un commento, correggendo l’inesattezza dell’influencer.
La sua risposta fu molto indicativa. Mi disse solo che avevo «il tono da maestrina». Il che mi fece ridere, perché era come se la ragazza avesse ammesso: “ho detto una cretinata, non ho argomenti per controbattere, quindi te la butto sul personale”.
Ecco, questo episodio rappresenta bene un certo tipo di k-influencer molto diffuso sui social oggi. Persone che spargono informazioni superficiali e inesatte, basate più sulla popolarità che su una reale conoscenza. E quando vengono corrette, invece di accettare critiche costruttive, rispondono in modo difensivo, evitando il confronto.
Ma questo atteggiamento superficiale nel diffondere informazioni non si ferma ai social, ai post e ai reel che si vedono online.
La mancanza di autorevolezza
Cosa direste se vi dicessi che ci sono k-influencer famosissime che hanno pubblicato dei libri sulla Corea senza aver mai visto la Corea neanche con il binocolo? E qui sorge una domanda: quali verità possono raccontare in quelle pagine, e con quali competenze? Che valore hanno le loro parole quando non sono supportate da esperienza diretta o da una conoscenza approfondita?
La responsabilità però non è solo la loro. La responsabilità è anche delle aziende che preferiscono guardare ai numeri – follower trasformati in semplici numeri paganti – piuttosto che alla preparazione e alla reale competenza di una persona. Stiamo parlando cioè di un sistema che premia la superficialità a scapito della conoscenza e della professionalità.
Quando il consenso vale più della verità
La mancanza di autorevolezza non è l’unico problema. Uno degli aspetti a mio avviso più scivolosi, è quello di voler a tutti i costi compiacere la propria Community e i propri follower, finendo con il dire mezze verità.
Non dimenticherò mai un episodio emblematico – che peraltro ho già raccontato sui miei social. Una k-influencer molto nota, di ritorno da Seoul, dichiarò in una storia o in un reel – poco importa: «Volete sapere come sono gli uomini coreani nella realtà? Sono tutti bellissimi!», accompagnando la frase con un’espressione maliziosa.
Rimasi basita. Queste affermazioni sono intellettualmente disoneste e non rendono un buon servizio alla comunità online. Non è solo una questione di integrità morale, ma anche di rispetto verso chi ci segue. Alimentare miti irrealistici non aiuta nessuno, anzi, rischia di deludere e confondere.
Se andrete in Corea, vi renderete conto che i coreani sono persone normalissime, e soprattutto non sono tutti belli come Park Seo-joon. Essere onesti con i propri follower è, a mio avviso, un segno di rispetto. Fargli credere la favola che la Corea è l’Eldorado, popolata da uomini meravigliosi con la pelle diafana e gli addominali scolpiti, è piuttosto ridicolo – diciamo la verità.
Il fenomeno dei viaggi di gruppo in Corea del Sud
Un altro fenomeno che mi ha fatto prendere le distanze dal mondo dei k-influencer è quello dei viaggi in Corea, organizzati dalle agenzie sfruttando gli influencer come tramite per mettere insieme gruppi di visitatori.
Sono stata contattata più volte anche io, ma ho sempre declinato. Non è una cosa nelle mie corde. Per farvi capire meglio il mio punto di vista, la dirò così: il fenomeno dei viaggi in Corea ha preso una piega molto commerciale e superficiale. Ha perso completamente la sua autenticità e il suo valore culturale, trasformandosi in una semplice operazione di marketing. L’obiettivo iniziale, quello cioè di creare una connessione autentica con la cultura coreana, è stato messo da parte in favore del profitto.
Quando poi ho visto che hanno iniziato a partire per la Corea anche beauty influencer, che con la Corea e i drama c’entrano come i cavoli a merenda, ho capito che il fenomeno era fuori controllo.
Era diventato davvero solo un modo per sfruttare la moda del momento. Questo, per me, va contro tutto ciò in cui credo. Può sembrare un discorso idealista, e forse lo è, ma preferisco rimanere fedele ai miei valori. Per questo lo annovero tra quegli aspetti che hanno contribuito ad allontanarmi da quel mondo.
Riflessioni sulla professionalità nel mondo delle collaborazioni
Un aspetto che mi ha colpito negativamente, durante il mio percorso, è stato l’atteggiamento di chi si trova in una posizione di maggiore visibilità. Non parlo di celebrità irraggiungibili o di star del cinema intendiamoci, ma di persone e colleghi alla mia portata, come piccole case editrici indipendenti o figure nel mondo della cultura coreana.
Nel corso del tempo, ho contattato diverse associazioni culturali coreane, agenzie e piccole realtà editoriali, proponendo collaborazioni completamente gratuite. Ho anche acquistato libri da recensire, senza chiedere nulla in cambio. Nonostante queste proposte fossero sincere e mirate a creare valore per entrambe le parti, spesso non ho ricevuto nemmeno una risposta. Non si trattava di cercare un accordo commerciale, ma di avviare un dialogo professionale e creativo. Eppure, quello che ho trovato è stato un silenzio totale. Non parlo di rifiuti espliciti — che avrei accettato con serenità — ma dell’assenza completa di riscontro, un comportamento che considero poco rispettoso sia a livello personale che professionale.
Questo tipo di atteggiamento mi ha fatto riflettere molto su quanto sia importante mantenere professionalità e rispetto nelle relazioni digitali, indipendentemente dal numero di follower che si ha e dal ruolo che si riveste.
Il ruolo dei follower nel mondo dei k-influencer
In questi due anni, ho messo insieme complessivamente una Community di oltre 50k follower, una Community piuttosto vivace e calorosa. Ovviamente nel tempo sono entrata in contatto con tantissime persone e ho sperimentato una varietà di situazioni – anche bazzicando profili simili ai miei.
Fermo restando che ogni generalizzazione lascia il tempo che trova, ho notato alcune costanti, alcune caratteristiche ricorrenti in una parte consistente degli appassionati di drama e Corea: un amore indiscriminato e acritico verso tutto ciò che è coreano.
Cercherò di fare un passo indietro e di spiegarmi nel modo più chiaro possibile. Credo che il mio percorso si sia distinto per la capacità di mostrare tanto i lati positivi quanto quelli negativi della cultura e della società coreana. Nel tempo ho parlato della Corea mettendo in evidenza sia gli aspetti luminosi sia le ombre di questo Paese – un Paese che, lo dico a scanso di equivoci, apprezzo e nel quale ho vissuto per un periodo. Ne ho parlato qui:
Sui miei social ho sempre cercato di condividere con i miei follower una visione autentica della Corea, non la favola che spesso ci raccontano i drama romantici.
Un amore indiscriminato e acritico verso tutto ciò che è coreano
Mi è capitato spesso di leggere commenti di follower – persone adulte e raziocinanti – che usavano parole forti per affermare che «in Corea non ci sono problemi» o che «in Corea è tutto perfetto».
Anche quando ho espresso opinioni personali, stroncando un drama o rivelando che un attore non è tra i miei preferiti, le reazioni sono state altrettanto accese. Ad esempio, spesso non è stato ben accolto il fatto che Ji Chang-wook e Hyun Bin non rientrino tra i miei attori preferiti. È normale avere gusti diversi, ma questo tipo di atteggiamento rende il confronto davvero difficile. L’atteggiamento da fangirl e fanboy che non tollera critiche o opinioni divergenti, alla lunga mi ha stancata.
Questi episodi mettono in luce un aspetto preoccupante: per una parte degli appassionati di drama, la Corea viene idealizzata in modo estremo, come se fosse un mondo perfetto e senza ombre. Questo tipo di atteggiamento rende difficile accettare qualsiasi critica o opinione che non si allinei a tale immagine. Sembra quasi che toccare quella visione idilliaca sia percepito come un attacco personale, il che porta a reazioni sproporzionate. C’è una chiara difficoltà nell’accogliere una visione equilibrata e realistica, che tenga conto sia dei pregi che dei difetti della cultura coreana.
Un campanilismo esasperato
Ma c’è di più. A questo si aggiunge una sorta di campanilismo esasperato, dove sembra che tutto ciò che non è coreano venga automaticamente sminuito o ignorato.
Chi ama la Corea ritiene che siano belli solo i drama, ascolta solo il kpop, pensa che solo la lingua coreana sia la più dolce al mondo. Improvvisamente, l’appassionato di drama è diventato purista dei sottotitoli a tutti i costi. E anche se, per puro caso, dovesse incappare in un vecchio film finlandese degli anni ’60, chiederebbe come poterlo guardarlo doppiato in coreano, con i sottotitoli in italiano… LO SO! Pensate che io stia esagerando… ma non è niente che non abbia letto sulla mia Community.
Insomma, trovo questo campanilismo decisamente limitante. Sui miei social, ho cercato di aprire il dialogo ad altre serie TV, anche occidentali, e di ampliare i temi, ma ho incontrato una certa resistenza. Resistenza che ho notato anche per i drama giapponesi e cinesi, che ultimamente trovo persino più godibili di quelli coreani.
Quale futuro? Una riflessione sulla scia di Michela Murgia
Tutto questo mi ha fatto riflettere su quale tipo di comunicazione voglio portare avanti. Ho sempre creduto che chi gestisce un social, grande o piccolo che sia, abbia una responsabilità verso chi lo segue. Non si tratta solo di piacere o di inseguire consensi, ma di saper usare la propria voce in modo consapevole, per condividere una visione più ampia e sfumata del mondo. E qui mi torna in mente Michela Murgia, che su questo tema – come d’altra parte, su molti altri – ha sempre avuto una visione illuminata.
La Rubrica “Libri & altri Disastri” non terminerà mai con una stroncatura. Al contrario, ogni articolo si chiude con un bonus, che rappresenta il contraltare a ciò che ho criticato e stroncato, qualcosa di bello, ispirante o degno di riflessione. Ebbene, il bonus di oggi è proprio Michela Murgia.
Michela Murgia e i BTS
Com’è noto, la Murgia amava la Corea e il k-pop, una passione di cui non ha mai fatto mistero, a cui ha dedicato letture e conferenze che potete trovare su YouTube e che vi consiglio caldamente di guardare. Trovava nel k-pop uno spazio di sperimentazione e libertà espressiva che l’affascinava profondamente.
In particolare, in uno dei suoi articoli più potenti, racconta un episodio che l’ha segnata: il momento in cui V dei BTS, sul red carpet, si accasciò probabilmente sfinito. Il gesto che colpì la Murgia non fu tanto l’atto di soccorso di Jin, il più grande dei BTS. Fu il fatto che invece di aiutarlo a rialzarsi tendendogli la mano, si inginocchiò lui stesso. Non lo lasciò solo nella sua fragilità, e non si rialzò fino a quando non lo fece anche V.
Per la Murgia, quel gesto rappresentava molto di più di un semplice aiuto concreto. In un momento in cui lei stessa stava subendo un attacco mediatico violento, quel video la portò a riflettere profondamente sulle sue relazione e rivedere tutti i suoi rapporti. Smise di essere sempre quella ‘forte’ per gli altri. Cominciò a dire di no, a togliersi dalle relazioni in cui si sentiva prosciugata, e a concentrarsi solo su quelle simmetriche, basate su un sostegno reciproco.
Michela Murgia, gli influencer e il soft power
Ed è qui entra in gioco anche la sua riflessione sugli influencer. Per la Murgia, il potere di chi ha una piattaforma social, indipendentemente dal numero dei seguaci, è una responsabilità che non può essere sottovalutata. Proprio come Jin si è inginocchiato accanto a V, chi ha un pubblico non dovrebbe esercitare il proprio soft power dall’alto, ma lo deve usare con consapevolezza e rispetto verso chi lo segue. Insomma, non basta avere dei follower: bisogna imparare a gestire la propria voce con responsabilità.
Sono particolarmente felice di ricordare (ed è qualcosa che non ho mai confidato pubblicamente) che Michela Murgia è stata una delle prime persone a seguirmi su Instagram, quando avevo ancora il mio vecchio profilo. Ricordo esattamente il giorno in cui mi mise il Follow. Stentavo a crederci e pensavo quasi fosse un fake… Fu un momento di orgoglio incredibile per me. Pensare che una voce così autorevole e illuminata avesse deciso di seguire il mio lavoro mi diede una spinta immensa.
Ecco perché oggi non posso che dedicarle il bonus in questo episodio, come esempio di integrità e serietà nel mondo digitale – a cui tutti, piccoli e grandi influencer, dovrebbero, anzi, dovremmo ispirarci.
Libri & altri Disastri. L’arte di Stroncare
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